Respirare la leggerezza,
toccare la libertà,
assaporare l'assenza di limiti,
vedere la bellezza,
sentirsi vivi.
La felicità.
venerdì 22 dicembre 2017
sabato 14 gennaio 2017
Sedicesima Quadriennale d’Arte
La Sedicesima
Quadriennale d’Arte è una mostra allestita per esporre e promuovere l’arte
contemporanea italiana, presso Palazzo delle Esposizioni, dal 13 ottobre 2016
all’8 gennaio 2017.
La Quadriennale
d’Arte viene organizzata con cadenza di quattro anni dalla fondazione
Quadriennale di Roma, che opera in collaborazione con il Ministero per i Beni e
le Attività Culturali ed il Comune di Roma. La prima mostra organizzata dalla
fondazione ebbe luogo nel 1927. L’esigenza di questo tipo di esposizione nacque
dalla volontà di dare maggior risalto alla questione dell’arte italiana,
lasciando alla Biennale di Venezia il compito di fungere da vetrina per l’arte
internazionale in Italia.
Caratteristica
dell’attuale mostra è la grande importanza del “Fuori Quadriennale”, un
laboratorio aperto per mesi, concepito
come una serie di mostre , incontri e dibattiti, distribuiti in circa trenta
appuntamenti in tutta Roma, per cercare di dare il massimo risalto possibile
alla contemporaneità artistica italiana.
La mostra
comprende 150 opere di 99 artisti, distribuite in 10 sezioni, ognuna delle
quali è concepita come una “mostra” a sé stante, che approfondisce una
particolare tematica. La gestione degli spazi espositivi è affidata ad undici
curatori, tutti con esperienze di rilievo in Italia o all’estero, selezionati
tra i trentotto che hanno deciso di presentare progetti per l’occasione. Tutti
coloro i quali si sono impegnati a fornire i loro progetti hanno tutti una età
inferiore ai cinquanta anni, indice della volontà di rappresentare solo il
presente dell’arte italiana.
Gli undici
curatori sono Michele D’Aurizio, Luigi
Fassi, Simone
Frangi, Luca
Lo Pinto, Matteo
Lucchetti, Marta
Papini, Cristiana
Perrella, Domenico
Quaranta, Denis
Viva, Simone
Ciglia e Luigia Lonardelli (gli ultimi due hanno
sviluppato il loro progetto insieme). Ognuno ha approfondito autonomamente una
tematica nel proprio spazio espositivo ma tutti hanno seguito il “fil rouge” concettuale,
da loro stessi elaborato, alla base della mostra: “Altri tempi, altri miti”,
citazione tratta dal romanzo dello scrittore Pier Vittorio Tondelli, “Un
weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta”.
“Altri tempi,
altri miti” si trasforma, all’interno del progetto della mostra, da semplice
citazione testuale a spunto critico, che spinge ad una riflessione sulle
differenze che rappresentano una necessità inevitabile della società; misurarsi
con l’altro o con se stessi durante il proprio percorso di crescita,
analizzando i processi di innovazione e superamento rispetto al passato.
Ponendo come
tema centrale l’analisi ed il confronto con l’alterità, si offre una possibile
chiave interpretativa al fruitore, che viene invitato a concepire tutte le
opere come parti di un discorso unitario, relativo all’intera mostra, invitando
a spostare continuamente l’attenzione dal particolare al generale e viceversa.
Il primo
ambiente al quale si ha accesso è la Rotonda, uno spazio comune, volto ad
ospitare performance e dibattiti, ma anche concepito come punto nel quale si evidenzia
subito una delle peculiarità fondamentali della mostra: le quattro parole che compongono
il tema (“Altri tempi, altri miti”) sono scritte sulle mura, in maniera tale
che non si possano leggere in modo univoco e lineare, ma è possibile usare una
qualsiasi delle parole come inizio, e creare una molteplicità di
interpretazioni, tutte altrettanto valide, proprio perché la disposizione nello
spazio lo permette. L’intera mostra infatti si pone come una provocazione al
fruitore che si presenta nella “comoda”posizione di osservatore-giudice: sono
chiamati in ballo tutti i sensi ed è soprattutto richiesta volontà di spogliarsi
dei propri preconcetti e stare al gioco dell’artista, che a volte si diverte
con il visitatore, chiedendogli di sdraiarsi a terra, accucciarsi o saltare per
poter vedere le proprie opere.
La numerazione
delle sale non vincola ad una visita “programmata”, poiché, anche in questo
senso, il fruitore è chiamato a crearsi un proprio percorso secondo delle associazioni
che possono risultargli più adatte e stimolanti. Si incita all’attività,
rispetto alla tradizionale passività. La visita è un discorso all’interno del
quale ogni elemento si inserisce con il proprio contributo, ed è dunque
richiesto anche al fruitore di portare il proprio.
CYPHORIA
Il nome della
sala deriva dall’unione di “cyber” e “dysphoria” (uno stato di insoddisfazione
e depressione). “Cyphoria” è un neologismo utilizzato per indicare la
condizione di coloro i quali credono che internet sia il mondo reale; in questa
sezione espositiva, il termine “dysphoria” viene intesa come la condizione di
disagio causata da una vita che viene condizionata dalla tecnologia, un
prodotto dell’uomo che, tuttavia, egli non è sempre in grado di gestire fino al
punto di esserne sopraffatto.
Il curatore
Domenico Quaranta invita il fruitore all’interno della sala per coinvolgerlo in
una riflessione riguardo il processo di continua evoluzione della tecnologia
negli ultimi anni, e su come questa si rifletta nell’arte contemporanea
italiana. Centrale è il concetto di evoluzione opposto a quello di rivoluzione.
Mentre quest’ultima è concepita come un evento collocato in momento preciso nel
tempo, l’evoluzione è intesa come progressivo mutamento e affinamento delle
tecnologie, che hanno trasformato in maniera radicale la nostra vita. In questa
“nuova” realtà, gli strumenti multimediali come il televisore, il cellulare o
il computer, sono ormai dei medium universali di cultura.
La sezione
tende a spostare il proprio campo di indagine dalla dimensione privata a quella
pubblica e viceversa, in un costante rapporto dialettico volto a cogliere le differenze
tra la drammatica realtà privata, vissuta in prima persona dall’individuo, e
quella pubblica, destinata al “palcoscenico” del web. L’oggetto di indagine della sala consiste,
sostanzialmente, nell’analisi del rapporto che si instaura tra “io” ed il mondo
della rete.
L’ambiente che
esprime questa analisi sembra essere stato concepito come un grande spazio
pubblicitario: il fruitore viene travolto da una “cascata” di informazioni a
partire dal suo ingresso, come se ogni opera fosse in competizione con le altre
per attirare maggiormente l’attenzione.
Da questa
impostazione “pubblicitaria” sembra sfuggire solo l’opera “Laocoon” di Davide
Quayola. La sua posizione isolata, al centro dell’ambiente ed in asse con
l’ingresso, accentua la differenza rispetto
a ciò che lo circonda: la scultura sembra ergersi come opera contemplativa, a
difesa della classicità, intesa come tradizione artistica precedente alla
tecnologia. Tuttavia, questo emblema viene modificato ed intaccato nella sua
essenza; l’artista tratta il modello antico in maniera tale da farne perdere il
significato originario, attraverso una digitalizzazione della forma, sia per
quanto riguarda il processo di realizzazione dell’opera- attraverso l’impiego
di moderne tecnologie- sia attraverso l’innesto di “costruzioni artificiali”
sugli arti, simili ad elementi appartenenti alla tradizione video-ludica e
digitale, che bloccano la forza espressiva del modello e riformulano l’opera in maniera tale da
privarla della sua organicità.
Dopo aver
evidenziato come sia profondamente mutata la tradizione precedente, al fruitore
sono proposte opere, per la quasi totalità, attraverso degli schermi, mezzi che
quotidianamente propongono un modello culturale, ed un sistema di pensiero,
senza possibilità di replica. Questo indirizzamento del pensiero conduce la
società a prendere come modello a cui tendere dei prodotti specifici, indicati
dalla pubblicità, come mostrano le opere di Mara Oscar Cassiani e Giovanni
Fredi.
Mara Oscar
Cassiani mostra come gli elevati standard estetici della nostra società portino
ad una ricerca del benessere “frenetica”, per poter limitare gli effetti dello
stress al quale si è quotidianamente sottoposti; questa ricerca comporta una
mercificazione del mondo del benessere, che rende le Spa degli spazi lussuosi
ed esclusivi.
Giovanni Fredi utilizza
come medium un “Iphone” prodotto dalla “Apple”, una delle aziende più
importanti a livello globale nel settore informatico, emblema dell’oggetto
ambito e desiderato per eccellenza. L’artista analizza il bisogno umano di
mostrarsi, che si riscontra in modo autentico e genuino, nei “selfies” (autoscatti)
realizzati in un “Apple Store” da dei passanti che bloccano sul dispositivo il
loro volto; Fredi estrapola dalla memoria del telefono solo alcuni delle
migliaia di volti registrati e li ingrandisce fino a dargli un carattere
ritrattistico, in tono ironico, dato lo scarso interesse che suscitano questi
volti “anonimi”.
Dall’altro
lato, la sala analizza la condizione di
isolamento ed estraniamento dell’uomo, causato da questa massiccia digitalizzazione.
Il collettivo “Alterazioni Video”, formato da Paololuca Barbieri Marchi,
Alberto Caffarelli, Matteo Erenbourg, Andrea Masu e Giacomo Porfiri, realizza
un interno domestico, un salotto, nel quale è presente un televisore che
trasmette immagini pubblicitarie di fronte ad un divano con tappezzeria
militare, sul quale è steso un manichino (che si riconosce come tale solo da
vicino, causando un sentimento di disagio ad una prima vista dell’opera) con la
faccia contro il cuscino, quasi spaventato dalla sua stessa televisione,
intento a nascondersi da quelle immagini e modelli ripetuti ed ormai
stereotipati. La scritta sulla parete “NESSUNA VOGLIA DI ENTRARE NELLA STORIA”,
si riferisce alla sentimento di estraneità che si può provare di fronte a
questo tipo di realtà.
Queste sono solo alcune delle riflessioni proposte nella
sala, che spinge notevolmente il fruitore ad uscire dalla sicurezza legata ad
una esperienza museale tradizionale. Questa sezione espositiva parla la nostra
stessa lingua, quella tecnologica, con la quale veniamo a contatto tutti i
giorni, ma ne evidenzia le criticità e ne mette in risalto gli aspetti problematici.
Proprio per questo punto di vista “altro”, rispetto ad una realtà che si è
soliti vivere nel proprio quotidiano, la sala si inserisce a pieno titolo nel
grande “discorso” del tema della mostra, e rappresenta punto di partenza
stimolante per una riflessione sulla società contemporanea.
“LOVE. L’arte contemporanea incontra l’amore”
“LOVE. L’arte contemporanea incontra l’amore” è un’esposizione
temporanea, presso il Chiostro Del Bramante a Roma, dal 29 ottobre 2016 al 19 febbraio 2017,
incentrata su una raccolta di opere di arte contemporanea legate al tema
dell’amore.
La forza della mostra sta proprio nella scelta di un tema
tanto universale come l’amore che, anche se con modalità diverse, incontra la
vita di tutti prima o poi. Questo sentimento, che nasce come privato ed
esclusivo, trova un grande spazio interamente dedicato, all’interno del quale non
viene inteso in modo univoco, ma è rappresentato nelle sue diverse forme,
attraverso le interpretazioni degli artisti, che ne evidenziano tutte le
possibili sfaccettature: dolcezza, passione, gelosia, rabbia, malinconia, solo
per citarne alcune.
In questo contesto, il pubblico gioca un ruolo fondamentale:
non gli viene chiesto di visitare un museo, ma di vivere un’esperienza ricca di
emozioni, provare sentimenti reali attraverso diversi stimoli. Diventa
assolutamente protagonista, ad esempio, nel momento in cui lascia un proprio
pensiero sulle pareti, concepite proprio per diventare una grande pagina che
parla d’amore, attraverso le testimonianze di tutti, perché se è vero che le
opere esposte degli artisti sono il motivo centrale dell’esposizione, riguardo
l’amore non esistono specialisti o conoscitori più esperti di altri.
Un altro spunto che permette un’intensa partecipazione per il
pubblico è la possibilità (che in realtà è un vero e proprio invito) di
fotografare le opere, contrariamente alle tradizionali esposizioni artistiche,
e di condividerle sui social network con l’hashtag ufficiale #chiostrlove, per
trasportare l’esperienza museale nella realtà multimediale, evidenziando il
continuo processo di evoluzione del museo, sempre più orientato all’integrazione
con la tecnologia.
Il percorso nell’esposizione inizia proprio con le opere
“LOVE” ed “AMOR” entrambe realizzate da Robert Indiana, che fa immergere
immediatamente il fruitore nel clima della mostra: i due quadrati di lettere
condensano il motivo principale dell’agire umano e del fare artistico (fare
arte è sempre un atto d’amore) in due parole che si fanno materialmente concrete
ed invadono lo spazio con forza ed irruenza, proprio le caratteristiche
dell’amore nel momento in cui si manifesta per la prima volta.
All’interno, l’allestimento si presenta altamente provocante
e quasi eccessivo, caratterizzato da moquette rosa e delle figure di amorini
che segnalano il percorso al visitatore. Questa atmosfera volutamente kitsch è
realizzata attraverso elementi convenzionalmente associati alla sfera del
desiderio ma, al tempo stesso, provoca il visitatore, chiedendogli di
comprendere le opere esposte nel profondo, senza fermarsi alla forma esteriore.
Danilo Eccher, il curatore della mostra nonché ex direttore
della Galleria d’Arte di Bologna, ha volutamente creato un’atmosfera
artificiale spinta all’estremo per dare l’impressione di un “paese dei balocchi
contemporaneo” dove, tuttavia, l’atmosfera forzatamente festosa, nasconde, in
realtà, un trattamento molto più riflessivo del tema. “Questa mostra non vuole
dare risposte, ma permettere a chiunque di rivivere la dimensione dell’amore
attraverso frammenti e suggestioni” afferma il curatore che, ispirandosi ai
videogiochi, crea degli ambienti che sfidano l’intelletto del visitatore
attraverso diversi stimoli, fino alla sala conclusiva, la più “instagrammata”
della mostra, con l’esposizione di Yayoi Kusama “All the Ethernal Love I Have
for the Pumpkins”, all’interno del quale il visitatore può meditare sul viaggio
emozionale compiuto, circondato dalle proprie proiezioni, in uno spazio
irreale.
LE OPERE
Il percorso della mostra viene spiegato attraverso le audio guide
che, in via eccezionale, per questa mostra sono ben cinque: John, Coco, Amy,
David e Lily, cinque compagni di viaggio che guideranno il visitatore
attraverso le sale, cercando di rendere la visita leggera ma, al tempo stesso, accattivante
e suggestiva.
Di seguito sono riportate alcune delle opere che meglio
riescono a condurre il visitatore al cuore della mostra, colpendo direttamente
la sfera emozionale più autentica, commuovendo, ma al tempo stesso proponendo
delle riflessioni su determinati aspetti dell’amore, che gli artisti hanno condensato
nelle loro creazioni, per poter comunicare universalmente le loro esperienze.
L’opera “Smoker #3” di Tom Wesselmann rappresenta una bocca femminile intenta a fumare. Queste
labbra, con un acceso senso erotico e sensuale, vengono considerate proprio per
il desiderio che queste suscitano nell’amante. Quello rappresentato è un amore
carnale, attraente quanto inafferrabile, proprio come il fumo che si perde
nell’aria. L’artista indaga la figura della “femme fatale”, attraverso una sua
rappresentazione stereotipata ereditata dal mondo del cinema, l’ideale della
donna che sfugge e, nella sua indipendente supremazia, non si cura delle
angosce che infligge all’amante.
Joana Vasconncelos, con il suo “Red indipendet Heart #3”,
riesce ad esprimere in pochi secondi, attraverso la lentezza della rotazione
del cuore e la malinconia della melodia del fado, il lamento per la perdita
della genuinità dell’amore, che si è smarrito nella banalità dei luoghi comuni
quotidiani. Proprio attraverso elementi di poco conto, quali posate di plastica
rosse, l’artista realizza il suo grande cuore, riccamente ornato, simbolo della
perfezione e della ineguagliabile bellezza del sentimento originario, troppo
svilito dalla ripetitività.
In “VBSS.003.MP”, Vanessa Beecroft celebra la donna e la
possibilità di un amore multiculturale, emblema della famiglia moderna. La figura
femminile è presentata con la stessa ieraticità di una scultura sacra, e sembra
legarsi direttamente alla rappresentazione del tema della “Madonna con
bambino”, proponendo, tuttavia, una nuova scena di epifania, dove l’elemento
divino viene rintracciato nell’universalità dell’amore che riesce a scavalcare
le barriere dettate dalle differenze
culturali.
Anche Marc Quinn,
ispirandosi a modelli secolari (alla statuaria classica in questo caso) realizza
attraverso una forma “antica” un’opera tanto attuale quanto commovente: “Kiss”,
la rappresentazione di un bacio tra due portatori di handicap realmente
sposati. Il merito dell’artista sta nella resa assolutamente dignitosa del
soggetto, che non viene osservato da un punto di vista superiore, evitando di
cadere in un facile pietismo. Attraverso il trattamento serio del soggetto, emerge
chiaramente la volontà di considerare
l’amore Vero, nella sua concreta imperfezione, e non come sentimento astratto,
lontano dalla reale esperienza vissuta.
L’ultimo ambiente ospita
l’installazione “All the Eternal Love I Have fot the Pumpikns” realizzata da
Yayoi Kusama. La sala è gremita di zucche-lanterne a pois e delimitata da
pareti di specchi che danno la sensazione di trovarsi in uno spazio irreale ed
infinito, che sfugge alla comprensione razionale, all’interno del quale
l’artista chiede di abbandonarsi. Solo immergendosi completamente in questa
esperienza si può comprendere lo spunto proposto dall’autrice, che invita a
riflettere sulla differenza tra la realtà concreta e le costruzioni illusorie,
che spesso si confondono nelle prima fasi dell’innamoramento.
Nel complesso, il merito più
grande della mostra è la capacità di trattare un tema semplice ma, al tempo
stesso, delicato come l’amore senza cadere in una eccessiva sdolcinatezza, anzi
riuscendo a sviscerare le sensazioni ad esso associate in maniera coerente e completa.
Risulta vincente la sfida che vede il sentimento come nucleo fondamentale di
una esposizione, poiché si allarga la fascia del pubblico interessato a fruire
questo tipo di esperienza, e la visita stessa diventa un percorso di scoperta
dell’arte quanto della propria interiorità.
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